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Nello scaffale troverete i PDF dei primi tre capitoli del romanzo HYBONYX, pubblicato nel 2013 da PHASAR Editore.
Inoltre, i primi due capitoli del nuovissimo romanzo Sillorian - L'Ombra del Principe, che potrei pubblicare online a titolo gratuito, salvo diversa indicazione editoriale... .
Infine, il primo capitolo de Il Mistero di Hydequarry, romanzo cominciato, interrotto, rimaneggiato, rifatto, disfatto e che ora... pare uno di quei casermoni in disarmo cominciati e mai terminati, con grave dispendio di soldi e fatica, che alla fine deturpano il panorama! Uff... Lo ricomincerò daccapo. Dopotutto, l'idea di fondo mi piaceva tanto e sarebbe un peccato sprecarla. Come...? No, certo che non vi racconto l'idea, se no dove starebbe il senso della narrazione? Quella è la “sorpresa” finale!


 

HYBONYX - Sinossi ufficiale, posta sul risvolto di copertina del volume

SINOSSI
In un'alba gelida di primavera, a causa di un malore, uno strano botanico si accascia fra le nevi canadesi. Sulle prime non dà peso al disturbo e, ripreso il controllo di sé, prosegue la sua vita di sempre. Non ha ancora idea di quale rilevanza avrà quel piccolo incidente nel suo destino che, da quel momento, si legherà indissolubilmente a quello della giovanissima Lisa.

Benché già provata duramente dalla vita, ella scopre che la mamma nasconde un segreto terribile. Tra disperazione e inconsapevole eroismo, affronterà il futuro col prezioso aiuto di un Essere che sulle prime le parrà di natura sin troppo mistica. Invece entrambi, contravvenendo ad arcane Leggi, s'incammineranno lungo un percorso tormentato e idilliaco che li costringerà a scelte difficili fra i mali di questo mondo e le insondabili prospettive di un altro, lo spirito di entrambi rivolto ad un desiderabile alter ego, che ispira l'antico concetto di anime gemelle.
 
 
 

[...segue dalla Vetrina]

Come ho già avuto modo di spiegare, il titolo del romanzo deriva dall'arbitraria sintesi di due parole derivanti dal greco, Hyperborea (o Iperborea, luogo paradisiaco extraterrestre) e Nyx, dea della Notte Cosmica. L'unione delle due sillabe hy e bo con la parola nyx creano appunto il lemma hybonyx, il cui accento tonico, provenendo dal greco, cade sulla prima sillaba: la pronuncia sarà dunque àibonix. D'altro canto, si tratta di un vocabolo inventato da me, sicché non c'è pericolo che io possa storpiarlo... smile
Che Hybonyx sia fruibile anche da un pubblico più convenzionale rispetto al target ipotizzato durante la stesura della storia, è provato dal fatto che mi arrivano buonissimi riscontri di gradimento da signore di una certa età così come da rappresentanti del “sesso forte”.

Comunque sia, mentre cercavo immagini nel Web per ispirazione e acquisizione di materiale grafico, mi saltò agli occhi un fatto piuttosto evidente: molto spesso, infatti, nel mondo antico si trovano testimonianze testuali e soprattutto artistiche di individui alati, cioè dotati di un apparato di volo. Si potrebbe disquisire all'infinito se fossero vere ali organiche, macchine di volo indossabili o meri orpelli decorativi e magari simbolici. Ciò che per me contava era l'evidenza della varietà di popoli, culture antichissime e luoghi geografici fra i più remoti e distanti che ne riportavano l'esistenza. Spesso, infatti, questi individui o entità alate non erano riconducibili a “normali” esseri umani ma, piuttosto, a personaggi straordinari, spesso intelligenti, alti e potenti abbastanza da essere assimilati a delle divinità.
E questo è stato per l'appunto il gancio da cui trarre la mia storia. Ho raccolto e collezionato una serie d'immagini, molte delle quali riconducibili al periodo greco e romano, ma altre risalenti all'epoca sumera così come al II secolo a.C. o al Medioevo... Se in taluni casi l'apposizione di ali d'uccello alla figura umana può sembrare un omaggio alla fantasia e all'arte, infatti, vi sono casi in cui quella “strana” e, per certi versi, scomoda presenza sembra giustificarsi soltanto con l'evidenza di un mistero antichissimo.

Mistero che ho sfruttato per porre in essere l'esistenza ipotetica degli Hybonyx, appunto. Così, nell'incipit di ogni capitolo del romanzo, ho inserito una citazione che si adatta al contesto del capitolo stesso e, mediamente ogni due capitoli, ho aggiunto una piccola immagine elaborata in bianco e nero fra quelle che ho trovato e che mi hanno più ispirato. Ad esempio, all'inizio del primo capitolo si trova un antico graffito sumero in cui viene ritratto un uomo alto e dai capelli chiari (lo si evince anche dal fatto che altre figure qui non visibili sono decisamente brune), con caratteri somatici caucasici (razza bianca), che reca un ananas nella mano... e che ha sulle spalle le caratteristiche ali sumere riscontrabili, quasi identiche, in molti altri fregi e bassorilievi dell'epoca, sempre riferibili a grandi figure potenti e nobili, probabilmente non terrestri (cfr. Zecharia Sitchkin e suoi scritti).
Del resto, ho anche scoperto di recente che, secondo quanto riportano varie e accreditate fonti “ufologiche”, la pianta dell'ananas non era originaria di questo pianeta e vi fu introdotta per incrementare la varietà di flora autoctona; questo avvenne nel periodo in cui, secondo tali fonti, agli uomini primitivi dell'epoca, perlopiù nomadi, cacciatori e raccoglitori di frutti, furono insegnate le basi dell'agricoltura come ancora oggi noi l'intendiamo, ossia con l'immagazzinamento delle sementi e una distribuzione avveduta delle acque d'irrigazione. C'è abbastanza materiale, dunque, per elaborare qualcosa che, in un certo senso, derivi da quelle singolari premesse. smile

Se nel primo capitolo si percepisce quest'atmosfera rarefatta e misteriosa, nel secondo si torna alla consueta quotidianità che ognuno ben conosce. La vicenda della protagonista, la giovane Lisa Ranieri di Roma, si snoda attraverso una fase iniziale piuttosto dolorosa ma poi, quando lei ottiene un aiuto insperato e del tutto mirabolante, la “staticità” dei primi capitoli si avvia a passi concitati verso la piena rivelazione di realtà inaspettate, mentre gli eventi precipitano intorno a lei, alla famiglia e alle sue inseparabili amiche. Quando un'oscura minaccia investe i personaggi, ecco che diventa fondamentale scoprire come andrà a finire, tanto che più d'una persona si è trovata, pare, a far le ore piccole pur di arrivare in fondo!    smileSupich
I commenti che ho ricevuto sono stati numerosi e alquanto positivi. Nel caso in cui voleste divertirvi a leggerne alcuni, vi rimando alle opinioni raccolte nella sezione Guests / Ospiti, ottenute dai miei lettori a fine lettura o addirittura in itinere! Dicono che il romanzo è toccante e sempre più avvincente a mano a mano che procede, sino a culminare nella presa di coscienza di mondi e sentimenti nuovi, diversi da tutto ciò che ci si attendeva in precedenza.
Speravo tanto che il lettore fosse assorbito dagli eventi narrati e credo proprio di essere riuscita nell'intento!

 


 

Di seguito, uno stralcio del primo capitolo di HYBONYX. Volendo, e` possibile scaricare gratuitamente il PDF dell'intero capitolo e dei due capitoli successivi. Si ricorda che il libro, sia in versione cartacea che in eBook, è disponibile presso il sito web dell'Editore, PHASAR Edizioni - Firenze, su IBS, Amazon ed è inserito nel Catalogo Nazionale Alice, presso cui si riforniscono quasi tutte le librerie d'Italia e anche dall'estero.

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gargoyle alata

Copertina "Hybonyx"


Ylenia Costa

 

Hybonyx
 

 

Tutti i diritti riservati ..: ©2012-2016 :..


 
Opera: HYBONYX | Ediz.: Phasar (FI - Italia)| Cap.: I  (parz.)| Agg.to: 02-05-2012 |

 

I

Genio Assiro nordico alato “La mente che si apre ad una nuova idea
non torna mai alla dimensione precedente.”
Albert Einstein

Whistler, Columbia Britannica - 13 aprile

Nell’algida luce di un’alba canadese che, come spesso accadeva in quell’anno glaciale, spazzava radente un mare di nubi grigie, immanenti un panorama tanto candido quant’era vasto, delle agili dita sottili protette da guanti scansarono con brevi gesti la neve che si accumulava sulla corteccia di un albero; poi una piccola lama, sottile ed inquietante, baluginò al sole incidendo quel legno rugoso e asportandone un frammento, che fu subito inserito in una scatoletta d’aspetto leggero e trasparente, di un lindore chirurgico. Dall’incisione, che era stata opportunamente allargata, sgorgò della linfa alla quale le abili mani accostarono una piccola provetta, altrettanto delicata e luminosa. La provetta si riempì e fu chiusa ermeticamente, quindi riposta in uno degli scomparti, destinati a quel tipo di contenitori, all’interno di un’anonima borsa bianca dall’aspetto rigido e compatto, rettangolare e dotata di una lunga cinghia priva di fibbie.
    Infine sulla ferita appena procurata all’albero venne applicato un misterioso unguento, qualcosa che sembrò far cicatrizzare quasi all’istante il taglio. Il bizzarro medico delle piante si allontanò di un passo e osservò con attenzione il lavoro svolto. Approvò con un lieve cenno del capo e si voltò per lasciare il miracoloso medicamento nella borsa; mentre si chinava su quest’ultima per chiuderne i lembi, fu colto da uno sbandamento repentino, violento.
    Slanciò le braccia in avanti, per sorreggersi ai rami bassi dell’albero di fronte, e scosse la testa; gli mancava l’aria e pensò che qualcosa non funzionasse nel casco di protezione. Si piegò allora per sedersi sui talloni; le dita corsero veloci agli interruttori di regolazione dell’atmosfera e del filtraggio ma tuttavia comprese immediatamente che il problema non era dovuto al casco e che, di fatto, non era quella la ragione del malessere: una causa di natura del tutto differente doveva aver provocato in lui il forte squilibrio. Una causa di natura senziente.
    Respirò a fondo, osservando la casetta in distanza, seminascosta dagli abeti; non vi erano segni di attività, né usciva fumo dal camino di pietre rosse. Gli abitanti del podere non erano ancora svegli, non si sarebbe dovuto preoccupare di loro.
    Sedette sul terreno, coperto da molti strati di ghiaccio e di neve fresca, e si portò le mani allo schermo nero di protezione. Fuori era molto freddo ma, tutto sommato, poteva arrischiarsi: non percepiva anima viva, non si muoveva una foglia; nemmeno gli animali del bosco avevano aperto gli occhi.
    Fece scattare un meccanismo pressoché invisibile sotto la mandibola e udì il rumore del gas denso e gelido che, di colpo, penetrò all’interno. Inspirò ancora un paio di volte, profondamente, per abituare i polmoni al gelo e nell’aria percepì l’acuto aroma di conifere e di resina, il grasso profumo della terra umida e quello amaro, secco della neve.
    Allora sfilò il casco e lo appoggiò sulle ginocchia, rivelando ai raggi dorati del primo sole una massa morbida di capelli biondi, lunghi abbastanza da sfiorargli le spalle, eterei e sottili come fili di seta. Li scosse, nella speranza che gli si snebbiasse la testa, e chiuse gli occhi.
    Quella sensazione estranea e violenta era ancora viva, la percepiva fra gli altri pensieri, s’insinuava pressante nel suo animo che, tuttavia, non poteva identificarla. Non ne riconobbe il timbro, non vide il volto né udì la voce della persona a cui quella mente corrispondeva. Con ogni probabilità, non apparteneva neppure alla sua gente; non mandava messaggi, infatti, ma soltanto un’eco vastissima e pressante di dolore, un urlo senza suono.
    Quel che rendeva strana ed atipica l’esperienza era l’assoluta assenza di un segnale di personalità, come se quell’onda mentale appartenesse ad un essere senz’anima… Il che, dovette convenirne, non era affatto improbabile. Ma restava comunque la possibilità che il grido d’infinita sofferenza provenisse da un territorio assai remoto.
    L’enorme distanza, anche questo era probabile, avrebbe potuto annullare l’impronta di personalità: fra le due, la ritenne l’ipotesi più realistica. Restava da capire perché proprio lui la percepisse. Oltre tutto era durevole, come i fumi dell’alcool dopo un’ubriacatura; cominciava a procurargli una lieve emicrania. Respirò ancora per liberare il corpo dalla cupa impressione ricevuta e si alzò, lesto, con una grazia inaspettata per un individuo tanto alto e robusto. La tuta candida che indossava lo mimetizzava nell’ambiente circostante, smagliante di neve, e lo rendeva quasi invisibile.
    Infilò nuovamente il casco e decise di dimenticare. D’altronde, senza l’apporto di un’impronta, sarebbe stato impossibile stabilire a chi appartenesse quella sorta di richiamo. Afferrò la valigetta, mettendola a tracolla, e ripercorse il sentiero calpestando le stesse impronte formate all’andata. Il paesaggio era meraviglioso, quasi irreale, solenne e fulgido come uno specchio del Creatore, ma non lo privò del suo persistente disagio.
    Rientrò talmente di buon’ora da non incontrare nessuno dei suoi, né dei loro. Dopo essersi spogliato della tuta e aver indossato gli indumenti locali ed il pastrano, uscì di nuovo. In quella mezz’ora, il tempo era già mutato: il sole, appena sorto, era stato incorporato in una coltre di nubi basse e dense, mentre un vento freddo e sempre più teso faceva fremere le fronde degli abeti, soprattutto sulla cima. Al più tardi nel pomeriggio, pensò, sarebbe nevicato di nuovo; probabilmente, assai prima.
    I cambiamenti climatici erano diventati estremamente dinamici, negli ultimi trent’anni, e sembrava quasi che il pianeta si barcamenasse tra la desertificazione totale ed una bella glaciazione; andamenti stagionali irregolari, talvolta violenti, e curve di pressione e di temperatura sempre più capricciose stavano iniziando ad insidiare i cicli vitali che da millenni regolavano la vita della Terra, così come una indubbia instabilità della polarità magnetica, sintomo di grandi mutamenti futuri. Le conseguenze, in caso di collasso del sistema, sarebbero state catastrofiche per tutti ed anche, entro certi limiti, imprevedibili. Dunque, insanabili. Il suo lavoro era ormai agli sgoccioli.
    Scese in città a piedi, come faceva sempre nelle rare giornate in cui si concedeva quella passeggiata. E quel mattino, in particolare, sentì di averne bisogno. Il fastidio, benché più blando, era tenace e gli aveva procurato anche una strana nausea, alla quale non era avvezzo.
    Decise di entrare da Betty, nonostante tutto. Una tazza di caffè nero lo avrebbe ispirato e confortato più di qualsiasi riflessione, se mai la cara ragazza avesse deciso di lasciarlo in pace. Altrimenti, il suo chiacchiericcio vuoto gli avrebbe comunque impedito di preoccuparsi di quanto era appena avvenuto.
    Quando aprì la porta a vetri del negozio, cercò di non far suonare i campanelli che vi erano stati attaccati. Ci provava ogni volta, ed ogni volta Betty se ne accorgeva e lo riconosceva al volo. Anche questa volta, ovviamente.
    «Dottor Mohan, sei tu?» sentì strillare dai locali di cucina.
    «Giusto» mormorò lui, sedendosi con calma su uno degli alti sgabelli allineati davanti al bancone. Il locale non era mai stato di gusto sopraffino ma era caldo, accogliente e un po’ ruvido, come coloro che l’avevano tirato su e come la gente che lo frequentava.
    Una giovinetta sui vent’anni, con le guance rosse come mele e lunghi capelli fulvi, si precipitò al banco con le mani ancora umide, infilate nel grembiule di jeans.
    «Come ti butta, Mohan? Era un bel pezzo che non ti facevi vivo!»
    «Sto bene, grazie. Sentito che gelo? Ho bisogno di un caffè nero caldo, se non ti spiace» rispose lui, spostando con cura da sotto la gamba destra un lembo del lungo e voluminoso pastrano nero che lo avvolgeva tutto.
    «Be’, credimi: per quanto tu possa sembrare gelido nel farti tanto desiderare, rivederti non è mai un dispiacere» commentò la ragazza, mostrandogli un sorriso a trentadue denti dall’aria vagamente equina. Le brillarono gli occhi, che non riuscivano a staccarsi dal volto del cliente.
    Decisamente le era mancato; come al solito, del resto. Peccato che a lui Betty mancasse assai di rado e più che altro per l’abilità innata nel preparare un ottimo caffè. Delle ridicole illusioni di quella giovinetta di provincia non sapeva che farsene: erano banali, sdolcinate, intrinsecamente collegate all’erotismo e ad una insensata fisicità. Ogni volta che la guardava, capiva perché preferiva starsene lontano da quella gente e godersi il mondo nella sua essenza più remota e solitaria. Betty non aveva quasi idee proprie, seguiva la corrente; poco fine, talvolta sboccata, aveva una spiccata tendenza a sfiorare la vita senza coglierne l’essenza. Mai aveva osservato un tramonto con vera passione e di sicuro non era in grado di spiegare ciò che provava in fondo al cuore, nemmeno nei suoi confronti. Lei non era interessata ad una relazione seria ed importante ma, piuttosto, al gusto per l’avventura, all’eccitazione del nuovo e del bello. Era incapace, quella benedetta femmina, di fermare la mente su un’idea definitiva o su un oggetto duraturo.
    Non che le donne fossero tutte così, il dottor Mohan lo sapeva bene, ma di certo era piuttosto raro trovarne di quelle che, all’alta considerazione che avevano di sé , fossero capaci in concreto di corrispondervi nel contegno e nell’espressione dei sentimenti: poche erano veramente dotate di una spiccata sensibilità o di quella gentilezza innata che, altrimenti, le renderebbe tutte adorabili.
    Egli era del tutto avvezzo al loro modo di fare così scoperto: gli sguardi languidi o furtivi; le scadenti battute a doppio senso; il finto romanticismo che mascherava spesso una vena di mordace sarcasmo; il più delle volte, nell’approccio con gli uomini, si rovinavano da sole e ottenevano sempre meno di quel che, sotto sotto, sognavano tutte.
    Guardò Betty da sopra l’orlo della tazza di caffè che, non appena versato, stava già bevendo; lei lo fissava con aria sognante, come se fosse stata scaraventata all’improvviso davanti ad una fantastica statua di Adone. Ma tuttavia, mentre ne osservava senza parere lo sguardo svenevole e il sorriso fermo, quasi posticcio, sentiva con ogni fibra quanta vibrante passione emanasse la ragazza, tutto il suo desiderio puro e grezzo. Contrariamente al solito, poi, lei non chiacchierava affatto.
    Forse l’aveva fatta attendere troppo, l’aveva disabituata a sé: un brutto errore – per quanto fosse per lui un modus operandi gratificante – il fatto di non frequentarla abbastanza spesso. Ogni volta che lo rivedeva dopo tanti giorni, Betty tendeva ad innamorarsi di nuovo; una cotta decisa e crudele, tutta basata sull’attrazione fisica. Un indicibile strazio per entrambi, in ogni caso.
    «Che cosa mi racconti di tuo padre? Sta meglio, spero» chiese, posando la tazza di coccio blu sul piatto.
    «Una favola! Guarisce in fretta, come se non gli fosse capitato niente di brutto».
    Altro sguardo al fulmicotone da parte della ragazza. Mohan chinò lo sguardo sul caffè, nascondendo un sorriso di condiscendenza.
    «Sono contento» commentò, terminando in fretta la bevanda calda.
    «Ma scherzi? Tu dovresti essere fiero ed orgoglioso: sei un medico favoloso, dottor Mohan!» esclamò Betty, tutta presa dalla sua adorazione.
    «Non credo. Il tuo genitore ha una fibra eccezionale e si nutre abbastanza bene. Se soltanto la smettesse di fumare…»
    «Ah, lo so! Non hai idea di quante volte glielo diciamo, la mamma e noi altri! Ma ché, ci ascolta mai? Figurati.» La ragazza incrociò le braccia con fare da saputella ma poi, notando la tazza già vuota, le sciolse subito lungo i fianchi.
    «Ne vuoi ancora, vero?» lo sollecitò. «Il secondo è gratis!»
    Il bel dottore mise una mano in tasca, in cerca di monete. Evidentemente, non ne voleva più. Betty mise su un rapido broncio.
    «Hai da fare, oggi pomeriggio?» si affrettò a chiedere.
    Le pupille dilatate, le guance ancor più rosse del consueto, il turgore del seno e tutto l’atteggiamento della persona urlavano, in faccia al consapevole avventore, quanto desiderasse trattenerlo vicino a sé.
    «Temo di sì. Perché?» chiese lui con gentilezza.
    «Gli altri della comitiva ed io andiamo a pattinare. Ci portiamo panini e caffè caldo e… be’, i ragazzi porteranno anche da bere, è ovvio. Ma la cosa importante è che avremo buona musica e un sacco di plaid per distenderci dopo la corsa!»
    «Immagino» mormorò il giovane, volgendo altrove lo sguardo; e poi, rendendosi conto di suonare troppo ironico: «Capisco. Pare bello… Ma purtroppo devo lavorare in ospedale. Non avrei neanche il tempo di raggiungervi più tardi» soggiunse infine, prevenendo l’obiezione della ragazza.
    «Tu lavori troppo!» ridacchiò Betty, sporgendosi in modo provocante sul piano del bancone. «Quand’è che ti ritagli uno scampolo di tempo libero, eh?»
    «Sono un medico. Sai come funziona…» borbottò Mohan, tirando fuori di tasca una moneta e posandola con cura accanto alla tazza vuota.
    «Be’, senti! Se non ti prendi una pausa, finirai con il giacere in un letto del tuo ospedale, sai?» rispose la giovane, scoppiando a ridere per la propria battuta.
    Era molto probabile che, pronunciandola, Betty ne avesse ravvisato il potenziale doppio senso, il che l’avrebbe eccitata ancora di più. Era tempo di salutarla.
    «Betty, è stato un piacere, come sempre» disse, alzandosi e indicando la moneta «Tieni il resto.»
    «Come al solito?» scattò la ragazza, smarrendo il sorriso.
    «Sì, come al solito» le rispose con aria imperturbabile.
    «E, come al solito, tu mi sfuggi. Pensi che non me ne accorga?» attaccò lei.
    Fantastico. Una mattinata idilliaca, per uno già provato da un bizzarro malore privo di fondamento.
    «Betty, per favore» la supplicò a mezza voce, roteando le iridi di un azzurro intenso, assolutamente incantevole.
    «Vuoi dire “Per favore, non è vero” oppure “Per favore, non insistere?” Non ti accorgi che provi a scappare appena mi avvicino?» ribatté la ragazza.
    «Voglio dire che ne abbiamo già parlato, tutto qui.»
    «Ah, pensi che io abbia la memoria corta e un cuore inutile, insomma.»
    «No. Penso che non devi metterti in testa storie che non esistono. Non sono disponibile oggi come non lo ero ieri. Niente di personale.»
    «Ma che diavolo, Mohan! Mai sentito parlare di amicizia, tu?»
    Eccola l’astuta, piccola ipocrita: non appena le si chiudeva in faccia quella porta, cercava di aprirne una che neppure esisteva.
    «Sicuramente sì. Ma, cosa vuoi, sono talmente impegnato che i miei amici neppure mi telefonano più» rispose lui con un’aria di finta rassegnazione. «Finirei con l’offendere anche te.»
    Detestava quei discorsi, quel genere di scuse, tutti quegli atteggiamenti così… umani. Ne era spossato. E si era appena pentito di quella tazza di caffè.
    Betty si strinse nelle spalle, piuttosto incollerita. Le braccia tornarono conserte sul seno.
    «Dovresti lasciare a me il giudizio finale, no?»
    Il bel dottore non rispose, evitò anche di guardarla in faccia, benché conservasse un’espressione serafica.
    «Be’, Mohan, allora fatti vivo quando puoi» gli disse, acida. Non sorrideva più, lo fissava accigliata. Eppure sapeva, povera fanciulla, che se ne sarebbe pentita amaramente.
    «Okay. Mi spiace molto. Stammi bene, cara. E salutami i tuoi» le rispose, voltandole le spalle. Con tutta la sua mole, con quell’altezza imponente – ché con la testa sfiorava l’architrave della grande soglia – il giovanotto attraversò la caffetteria ed uscì nell’aria fredda e ventosa.
    Attraversò la strada fangosa in quattro falcate ampie e si mise a camminare sul marciapiede opposto, fra i fiocchi di neve che avevano ripreso a cadere, piccoli e turbinanti, sul paesaggio già frigido. Sapeva che, se si fosse gettato un’occhiata sopra la spalla, avrebbe scorto la ragazza sulla soglia dischiusa, intenta a fissarlo disperatamente mentre lui si allontanava. Per una volta, evitò di procurarsi l’ennesima fitta al cuore e non si voltò. Pregando di non incontrare altre giovani e focose rappresentanti di quel sesso, camminò di buon passo sino all’ospedale pubblico, dove entrò velocemente nell’atrio.
    L’emicrania non accennava a passare ed era strano: non si era mai sentito tanto scombussolato. Avrebbe dovuto parlarne con Edyrn ma sapeva che, in tal caso, sarebbe stato tartassato dalle sue domande crude, dirette, del tutto inutili: non nascondeva malanni, non aveva motivo di ritenersi in difetto, né aveva offeso o illuso qualcheduno salvo, suo malgrado, la piccola e sciocca Betty Garrett.

    [...segue. Scaricare il PDF Hybonyx-01]
 

 
Da fine settembre 2013 in vendita in tutte le librerie e sui maggiori cataloghi online. Disponibile anche in eBook!
 

Ylenia Costa

 

Il Mistero di Hydequarry
 

 

Tutti i diritti riservati ..: ©2015-2016 :..


 
Opera: Il Mistero di Hydequarry | Cap.: I |  Agg.: 13-12-2015 | 


 

Fuori stagione

   



    Silvia passò il dorso di una mano sulla fronte sudata. Faceva freddo, a dire il vero, ma il malessere l’aveva stremata e svuotata; in senso letterale: da dieci minuti riusciva a respirare senza doversi piegare per reprimere i conati. Il pullman di linea che risaliva la montagna aveva quasi esaurito la teoria di curve e tornanti che lo separavano dall’altipiano e ora lei, mentre fissava il panorama monotono oltre i vetri appannati, si sentì felice di scoprire che la nausea s’era finalmente placata. Col permesso del conducente, si era spostata sul sedile più anteriore, dove l’ampia visuale e un filo d’aria dal finestrino aperto le avevano dato requie. Lanciò un’occhiata al sacchetto di carta abbandonato ai suoi piedi, pieno di residui digestivi, e poi se ne distolse con disgusto per tornare a osservare le foreste che, come muri di conifere verdissime, braccavano da presso la strada tortuosa.
    Soffriva il mal d’auto da sempre, per quanto ricordasse, e l’unico modo di compensare il fastidio era quello di guidare per conto suo… o di andare a piedi. Era strano che patisse tanto le curve. Le era sempre piaciuto viaggiare e non soffriva il mal di mare o d’aereo. Solo quei dannati tornanti, ripidi e stretti, le facevano uscire sempre gli occhi dalle orbite e lo stomaco dalle orecchie.
    Non così s’era immaginata il suo viaggio della salvezza… Già, salvezza! Da che cosa, da sé medesima? In fondo, era probabile. In Italia, Alex l’aveva salutata mentre un’ombra di terrore gli dilagava nello sguardo, come se temesse che la sua povera sorella intendesse fare hara-kiri non appena girato l’angolo; l’aveva abbracciata con un calore, con un’energia che lei non aveva mai conosciuto prima. “Cerca di restare sana, capito? Torna da noi, piccola, più presto che puoi”, si era raccomandato.
    Caspita, quanta enfasi nel suo riservato e meditabondo fratello! E poi, quale inconsueta ironia: all’età suonata di trentacinque anni e dopo le recenti, terrificanti scorpacciate a base di gelato, croissant e budini al cioccolato, che le avevano regalato un fantastico sovrappeso di ben quindici chili, chiamarla “piccola” non poteva essere che il frutto di un’affettuosa apprensione.
    Alex era tutto ciò che le restava della famiglia d’origine: nati da Daniela e Michel Beauboisé (orrido cognome, innanzi tutto, e unica eredità concreta da quel lato), i due fratelli avevano visto la luce in Ontario dove, nei pressi di Ottawa, avevano trascorso i primi anni d’infanzia. Quel Paese era rimasto nei loro cuori benché, a causa della scandalosa condotta del loro padre, avessero dovuto lasciarlo assai presto per seguire la mamma che anelava di ritornare in Italia, là dov’era nata.
    In famiglia non si faceva un mistero del fatto che Michel non fosse uno stinco di santo; il Canadese aveva conosciuto Daniela, bella e umile figlia di emigranti italiani, alla fine degli anni Settanta e, dopo qualche tentennamento, l’aveva sposata. Ma il suo amore per le gonne – o per ciò che esse celavano – e quello per il gioco d’azzardo lo avevano condotto rapidamente alla rovina e alla fuga dalle proprie responsabilità. Così la signora Beauboisé si era ritrovata da sola e senza mezzi.
    Tuttavia, invece di schierarsi per partito preso a favore dell’amorale Michel, il ramo canadese della famiglia aveva cercato di proteggere i bambini, affinché non avessero a soffrir troppo della defezione paterna, assistendo la moglie abbandonata sulle cui spalle ricadeva l’incombenza di mandare avanti la prole e la sopravvivenza quotidiana.
    In un primo tempo, Daniela aveva dovuto cercare un lavoro e lottare per ottenere in favore dei figli la liquidazione dell’assicurazione stipulata dal marito, consultando (e pagando) un esercito di avvocati, al fine di ottenere condizioni soddisfacenti in vista del divorzio. Tuttavia, poiché il fedifrago aveva avuto la spiccata tendenza ad infischiarsi della famiglia e a scomparire nel nulla, la povera donna non aveva mai visto un centesimo giungere dalle tasche dell’ex coniuge, neppure a seguito delle varie ingiunzioni legali. Si era indebitata per saldare gli oneri verso gli avvocati e, alla fine, per non gravare troppo sui parenti acquisiti, si era decisa a vendere il poco che aveva e a tornare in Italia. Per ragioni economiche, la famigliola si era infine ritirata nell’abitazione rurale dei genitori di lei, fra le risaie e le nebbie fitte della Bassa lombarda.
    Silvia sospirò, osservando con aria triste una coppia di alci che in distanza ruminavano sotto una pioggia sottile. Era trascorso un bel mucchio di tempo da quegli anni lontani: quei due bambini erano cresciuti, ambedue i nonni erano scomparsi e così pure gran parte dei parenti canadesi. Le disgrazie si erano abbattute sui giovani Beauboisé con una cadenza a dir poco inquietante, a cominciare dal loro padre che era prematuramente finito in una tomba, ucciso da una bottigliata durante la rissa da lui scatenata in un bar di Montreal. La brutale dipartita di Michel aveva suscitato scalpore e molto imbarazzo in famiglia ma Silvia, che si era appena laureata in psicologia, se n’era addolorata appena: quell’uomo era stato poco più che uno sconosciuto per i suoi figli. Lei ne serbava pochi ricordi, per lo più sgradevoli; le sue tenerezze nei riguardi dei bambini s’erano contate sulle dita di una mano, perciò non aveva meritato le loro lacrime.
    Per di più, era stata distratta dalla felicità del primo amore: all’epoca era appena andata a convivere con l’affascinante Alfredo Morsacchi. A causa dell’avversa opinione del suo fidanzato, non si era preoccupata di lavorare (Alfredo non lo gradiva e mostrava segni inequivocabili di una passionale gelosia). Ciò nonostante, in quel periodo lei aveva sognato di aprire con Viviana, la più cara amica di quegli anni e di ogni tempo, un grande vivaio colmo di piante fiorite e di rare cultivar.
    Il giardinaggio era la sua passione, così come lo studio delle varietà botaniche. Sin da che ricordasse, amava moltissimo ogni cosa verde. Così pure gli animali ma, tuttavia, per varie ragioni non aveva mai posseduto altro che un paio di canarini e una tartaruga che, bella grossa e ormai adulta, aveva cominciato a sporcare sotto i letti e negli angoli bui della casa materna, motivo per cui era stata abbandonata in un bosco: sua madre non era stata in grado di sopportare, dopo tutto quello che l’ex marito le aveva fatto passare, anche il risibile fastidio di quel rettile insulso e sporcaccione. E lei ci aveva pianto su per dei giorni interi.
    Erano passati tanti anni e nessuno, un paio di lustri addietro, avrebbe osato supporre che la timida figliola di Daniela fosse destinata a ricalcare, con la drammatica fatalità di certe costellazioni familiari, le medesime disavventure occorse a sua madre; né che la giovane, dopo essere cresciuta nell’instabile, invisibile relazione fra i suoi genitori, patisse le stesse paure ed insicurezze materne; invece, nel giro di un anno appena, l’intera sua vita era degenerata in modo spaventoso.
    Suo fratello, che era stato licenziato dall’impiego, aveva sofferto un duro periodo di sconforto, sicché gli era stata vicina finché lui non aveva trovato un nuovo lavoro e una moglie affettuosa. Appena due mesi dopo quelle nozze, tuttavia, la vedova Beauboisé aveva scoperto di essere gravemente malata e, nel giro di nove mesi, se n’era già andata, lasciando i figli in preda allo shock. Se una tale sciagura non fosse stata sufficiente ad accartocciare la povera Silvia come una foglia d’autunno (è pur vero che i mali vengono sempre in compagnia!), il destino s’era accanito contro la dolce Viviana che, spegnendosi in conseguenza di un incidente stradale, aveva lasciato, oltre a tutto il resto, l’amica col cuore in pezzi e un noioso malanno da curare. Col fisico debilitato dalle troppe sofferenze, prostrata nell’anima da una brutta depressione, Silvia finì con lo scoprire, e nel modo peggiore, che la sua relazione con Alfredo era compromessa. In breve, si ritrovò sola: tutto finito, punto e a capo. E, oltre a tutto il resto, non era più una ragazzina!
    Ecco dunque le molte e non risibili ragioni per cui, ad un certo punto, la melanconia l’aveva fagocitata, costringendola a ritirarsi dal mondo per barricarsi dentro la vecchia casa colonica dei nonni. Su in paese, era diventata il pettegolezzo preferito delle comari, il caso pietoso che stimolava la cristiana sollecitudine del parroco. Sempre con le persiane sbarrate, sempre in pigiama, sporca e scarmigliata, la giovane disgraziata usciva di rado e solo per comprare del cibo spazzatura che l’aiutasse a sopravvivere. Per puro miracolo, forse, non aveva cominciato a bere come una vecchia spugna; la tentazione l’aveva avuta spesso, però. Quando suo fratello Alex era andato a trovarla, lottando finanche per farsi aprire l’uscio, poco era mancato che svenisse dall’orrore vedendola in condizioni tanto miserevoli: la casa era sporca e polverosa, l’aria viziata e cupa. Persino lei, la povera sorella, odorava d’urina e di morte.
    Malgrado tutto l’aveva abbracciata, ascoltando con pazienza le sue lunghe e lacrimose recriminazioni. Aveva poi deciso di ospitarla per un paio di mesi in campagna, nella sua nuova casa nei pressi di Monza: un gesto caritatevole e prodigo dal quale scaturì l’impulso di Silvia ad abbracciare una vita nuova. Protetta e coccolata dal fratello e dalla cognata Anna, donna spigliata e volitiva, aveva cominciato a riscoprire gli amati colori della natura, a smarrirsi nei boschi e fra i campi a perdita d’occhio. Amò la tenerezza del bracco pomellato di Alex, coi grandi occhi marroni e le orecchie pendule, che la accompagnava spesso nelle sue passeggiate; amò il canto delle allodole che al mattino presto, ben prima dell’alba, empivano di melodie l’aria umida fra i cespugli sulle prode.
    Di colpo, benché non più bambina, era stata proiettata in un mondo di fate e di giganti, di fantasmi e di piccoli segreti celati. Ogni angolo del giardino, ogni sasso fra le rovine del monastero, ciascuna laboriosa formica e le fragorose cicale, tutte le più umili creature le ricordarono, a tinte vivide e con strepiti insopportabili, che lei era ancora viva, che il mondo era sempre bellissimo, che dietro ogni morte e ogni sconfitta poteva ancora nascondersi una fulgida stella di felicità e d’amore.
    Non che ci sperasse troppo, a dire il vero. Non era più bella né giovane; si sentiva anzi vecchia e incompiuta a dispetto dei troppi rimpianti ai quali non avrebbe potuto rimediare. Ma tutti le ripetevano che era ancora in tempo, che non bisognava disperarsi, che era giunto il momento di reagire. Lei aveva tentato di crederlo.
    Alex, consapevole del profondo amore che la sorella nutriva per l’osservazione della natura, le aveva regalato una magnifica reflex; sua moglie Anna, invece, un grosso libro di fotografia paesaggistica da tutto il mondo. Silvia, sfogliandolo, s’era di nuovo innamorata del suo Paese natale, di quei colori smaglianti, così freddi nei mesi invernali ma sorprendentemente accesi nel breve resto dell’anno, col rouge degli aceri sovrano dell’autunno; e sognava a occhi aperti, il mento chino su fragorose cascate sperdute nella foresta, sui ghiacciai fra le vette impervie o fra le case di legno ruvido dei pescatori sulla costa.
    Un pomeriggio in cui se ne stava da sola fra i campi, seduta su un’antica pietra miliare col suo libro patinato sulle ginocchia, aveva capito che cosa doveva fare. Era tornata a casa correndo, finalmente pronta a far le valigie. Aveva trovato uno scopo per vivere.
    «Hai talento, piccola, creerai delle fotografie eccezionali», le aveva ripetuto più volte il fratello, «e sono sicuro che avrai un successo strepitoso quando le pubblicheranno in un libro come quello che ti ha regalato Anna.»
    Di solito fin troppo riservato e taciturno, Alex le aveva donato un sogno nuovo. Era partita promettendo che avrebbe combinato qualcosa di buono e che sarebbe stato fiero di lei; tuttavia, dal giorno in cui aveva lasciato la casa monzese, era ormai trascorsa un’intera settimana e già in cuor suo temeva che l’ombra del fallimento, retaggio ed eredità dei loro genitori, la perseguitasse.
    Prima di partire aveva visitato le tombe di sua madre e della povera Viviana, deponendovi pochi fiori bianchi, pregando entrambe affinché, dal luogo in cui si trovavano adesso, vegliassero sul suo estremo tentativo di dare un senso all’esistenza.
    Era davvero determinata a mutare i propri sogni, gli orizzonti e pure il continente; decisa a coltivare poche amicizie, non si sarebbe lagnata di non averne alcuna, se l’avere amici significava lasciarsi subordinare dal giudizio altrui. E, per carità di Dio!, nessuna relazione sentimentale. Non ne poteva più. Disillusa, sfiduciata, stava ancora cercando di recuperare la stima di sé. Non poteva proprio permettersi che un cretino qualsiasi la turlupinasse ancora, riducendola infine a un grumo di disperazione.
    Era scappata via, finalmente, verso un luogo in cui non un uomo sano di mente si sarebbe interessato a lei. Sarebbe stata sincera a oltranza, soprattutto con se stessa, e determinata a pensare in modo autonomo, a esprimersi come più le piaceva, a cantare a squarciagola e a dialogare con fiori, animali e sassi inanimati, se le aggradava. Per questo, aveva bisogno di un territorio vasto e spopolato. Eccentrica, stravagante, pazza? Li-be-ra. Era ormai tempo! Aveva un’ultima chance, benché i lutti continui e la spinosa questione del proprio divorzio avessero annullato le sue energie, privandola per troppo tempo della volontà di andare avanti. Sebbene la compassione di Alex ed Anna l’avesse salvata dal dolore più atroce, strappandola all’autocommiserazione, era consapevole di non essere guarita. Il suo carattere allegro e solare, per forza di cose, s’era ormai avvilito; così pure la speranza di un’esistenza più congrua e felice. Sarebbe andata a caccia di pose immortali e di libertà interiore, sicura che perlomeno l’antico spirito di avventura sarebbe risorto.
    Una volta atterrata a Montréal, si era fermata per un paio di settimane presso gli zii Eddie e Mathilde, un cugino di suo padre e la paffuta, biondissima consorte, per sistemare i documenti necessari al viaggio; intanto progettava l’itinerario per raggiungere una regione che fosse il più possibile isolata e selvaggia, regno di Madre Natura e carente d’umanità. Infine, arginando a fatica le lacrime di zia Mathilde, aveva lasciato l’Ontario per attraversare da est ad ovest l’immenso Canada.
    Sbarcata poi all’aeroporto internazionale di Edmonton, aveva preso un Greyhound verso Jasper. Quasi quattrocento chilometri e cento dollari canadesi dopo, si era trasferita su un pullman di linea che, arrampicandosi sulle Montagne Rocciose, risaliva verso nordovest, nella vasta regione dei parchi naturali. Nonostante il clima rigido e l’evidente presenza di ghiaccio sui bordi della carreggiata, le piste da sci erano ormai chiuse e la neve alta un ricordo; soprattutto per tale ragione il mezzo di trasporto era quasi vuoto poiché ovviamente, come l’autista aveva sottolineato, nessuno si recava lassù in quel periodo: aprile non era certo il mese ideale per una vacanza fra i boschi e la piccola frazione di montagna si godeva uno dei suoi lunghi momenti di pace.
    Silvia osservò il grosso cartello di legno spaccato dal gelo invernale che, sul lato destro della strada, le veniva incontro. Suonava alquanto esplicito:

HYDEQUARRY
VILLAGGIO MONTANO – EX CENTRO MINERARIO
JASPER PARK
ABITANTI 327”.

    Il rigo sottostante, tuttavia, di poco spaziato rispetto al resto, inchiodava lo sguardo e induceva al sorriso:

DIMORA DI BIGFOOT E UOMO-LUPO”.

    Silvia non seppe trattenere una risatina, indicando all’autista la ridicola asserzione. Costui sollevò un sopracciglio, recuperando il largo volante con ambedue le mani per affrontare l’ennesima curva.
    «Sì, agli stranieri può sembrare divertente», disse in tono asciutto. «Io però le consiglio di non andarsene in giro disarmata per la foresta. Ci sono molte specie di bestie feroci, da queste parti. Alcune, glielo assicuro, particolarmente aggressive e letali.»
    «Sta parlando di puma e orsi, immagino» osservò lei, sforzandosi di celare il sorrisetto di scherno.
    «Non soltanto quelli! Mi crederebbe se le dicessi che la comunità indigena della zona odia i Bigfoot e che, se ne incontra uno, tenta di ucciderlo? I nativi sostengono che quegli scimmioni senza collo abbiano la simpatica abitudine del cannibalismo.»
    «Scherza?! Non è possibile!» commentò lei, più impressionata di quanto non volesse mostrare. Il tono del conducente sembrava addirittura grave.
    «Mai stato tanto serio! Non prenda sottogamba le leggende locali, signora. C’è chi lo ha fatto e non è più tornato. Non da vivo, almeno.»
    Silvia distolse lo sguardo dall’uomo in divisa e si schiarì la gola, tentando di dare ordine al caos dei pensieri: sicuro, magari un sacco di gente aveva avuto la sventura d’incrociare un vecchio grizzly1 affamato o un branco di lupi a caccia, diventando la loro cena; o forse vi era chi, smarritosi nottetempo e cedendo al panico, aveva finito per infilzare il proprio scheletro in fondo a un canalone… Ma che senso aveva colorare di mistero qualche sgradevole incidente? Era probabile, piuttosto, che il folklore locale fosse giustificato dall’esiguità degli abitanti: trecentoventisette anime il cui unico passatempo, in assenza di turisti, era quello di spettegolare gli uni degli altri e, in mancanza di meglio, d’inventarsi storie da raccontare intorno al fuoco, con un lezioso marshmallow infilzato sullo spiedino e una pinta di birra nello stomaco.
    Stava per riprendere il discorso con un bel “parliamo di cose serie” quando, di colpo, ci ripensò. L’autista sembrava un tipo alquanto rigido e non era il caso d’irritarlo: era evidente che lui credeva a quelle storie.
    «Se volessi procurarmi un veicolo, a chi potrei chiedere?» domandò con aria indifferente. Attese la risposta infilandosi l’unghia dell’indice destro fra gli incisivi. Quella scemenza del bigfoot cannibale l’aveva innervosita.
    «Le serve un’auto? Vada dal vecchio meccanico all’inizio del villaggio: se non è morto, dovrebbe noleggiare ancora le sue carrette. Per tutto il resto, chieda a Duns.»
    La donna si voltò a guardarlo, sfilando il dito dai denti per asciugarselo sul cappottino di lana blu.
    «Che sarebbe?…» lo sollecitò.
    «Duns Williamson è una sorta di sindaco, il curatore del villaggio: sa tutto di chi ci abita, chi va e chi viene. Se sta cercando una persona, un posto in cui dormire o la risposta a qualche domanda, la cosa migliore è di chiedere a lui; inoltre, se vuole mangiare, il suo pub è aperto dalle sette del mattino a mezzanotte: si chiama Hornblend e sta sulla piazza principale, a pochi passi dalla fermata. Lo noterà non appena ci arriveremo.»
    Il pullman superò le prime case e Silvia dimenticò di ringraziare per le informazioni ricevute: fissò a bocca aperta quegli edifici bassi, per la maggior parte costruiti col legname della zona. Sembrava un antico borgo alla Jack London. L’autista spiegò che da anni le segherie della zona davano lavoro a molte famiglie, almeno da quando la vecchia cava di pietrisco era stata chiusa. Quando il conducente le lanciò un’occhiata, indicando la piazzetta circolare in cui stava svoltando, lei capì che era arrivata a destinazione; balzò in piedi e corse indietro lungo il corridoio per recuperare le sue cose. Pochi istanti più tardi, era ferma sul marciapiedi, giusto davanti all’unica banca del villaggio. Rabbrividì per il freddo e, dopo essersi aggiustata la sciarpa sul collo, sollevò la mano libera per salutare l’autista; questi suonò un colpo di trombe e, poiché non c’erano passeggeri in salita, richiuse le portiere con un gran fragore d’aria compressa, dando gas per ripartire.
    Una folata di vento improvviso, misto a pioggia, disperse il fumo nero sparato fuori dalla marmitta del grosso pullman che, compiuto l’ampio semicerchio della piazza, già svaniva oltre le case dall’altra parte. Silvia percepì immediatamente un particolare che trovò gradito e inquietante al contempo: un silenzio tombale gravava sul cerchio di casette a due piani che, come un grazioso presepio dimenticato fuori dello scatolone dopo le festività natalizie, sfoggiava tetti a padiglione ancora marezzati da lastre di neve dura e da ghiaccioli sgocciolanti; non vi era fumaiolo in vista da cui non fuoriuscisse un filo di fumo che, a seconda del tipo di legna bruciata nei focolari, era talora più scuro, tal altra tanto chiaro da confondersi col cielo basso e nuvoloso che lo attirava a sé.
    Molti edifici ostentavano sulla facciata anteriore, dal marciapiedi al primo piano, una sorta di porticato coperto sotto il quale si affacciavano alcune vetrine. Guardandosi attorno, tentò di fissare in mente alcuni punti di riferimento; notò per primo un grosso emporio che, di sicuro, fungeva anche da farmacia; oltre quello, un vicolo e poi un negozio di souvenir che aveva tutta l’aria di essere chiuso per ferie; poi una rivendita di liquori e tabacchi. Appresso alla strada principale, ecco l’ufficio postale con la sua caratteristica insegna e, di fianco, un negozio di merceria, con scampoli di stoffa, rocchetti, bottoni e gomitoli di lana ammassati alla rinfusa dietro il cristallo appannato, come se l’intera vetrina fosse stata devastata dalle birichinate di un micio. Oltre il vicolo successivo, si allungava la facciata di legno scuro dell’Hornblend, il pub del signor Williamson; occupava la lunghezza di un intero isolato e davvero non era difficile notarlo: era l’edificio più basso di tutti e non aveva alcun porticato né tettoie di protezione per i clienti. Le sue finestre parevano dire: “O dentro, o fuori”.
    Silvia si avvicinò a una pattumiera municipale e vi gettò il sacchetto col vomito; poi, stringendosi addosso le borse e tirando il trolley, attraversò la strada, saltando o aggirando cumuli di neve sporca addossati alle aiuole che, per ora scure e vuote, durante la bella stagione avrebbero adornato coi loro fiori il centro della piazzetta. Al momento, da quelle parti non girava anima viva.
    Attraversò l’uscio del pub, provocando un notevole spostamento d’aria fredda, e avanzò all’interno. Notò immediatamente, nell’angolo in fondo a sinistra, l’armamentario di un’orchestrina locale. Sulla destra, un massiccio paravento di legno intagliato le celò sino all’ultimo la visuale dell’intera sala che, quando finalmente lo aggirò, apparve ai suoi occhi assai lunga, ampia e rustica. Per un istante, se la immaginò stracolma di autoctoni il cui maggior diletto, probabilmente, era quello di riversarsi là dentro per bere e raccontarsi barzellette o esperienze di lavoro, noiose le une quanto le altre. Il lungo bancone del bar si trovava più o meno al centro della parete di fronte, oltre la selva di tavoli circondati da robuste sedie di fattura artigianale.
    Un uomo dal gozzo pronunciato, alto e smilzo, con untuosi capelli chiari e lunghi fin sul collo, attraversò in quell’istante una porta dietro il bancone, con ogni probabilità proveniente dalla cucina; tra le mani reggeva un paio di vassoi colmi di tazze e bicchieri puliti e sui fianchi indossava un corto grembiule azzurro.
    «Il signor Williamson?» domandò lei; la voce le uscì troppo acuta e sottile, ragion per cui se la schiarì.
    L’uomo sussultò e mandò a sbattere i vassoi sul piano innanzi a lui, facendo tintinnare le stoviglie.
    Caspita, ma si era spaventato per così poco? Strana gente, pensò Silvia, perplessa.
    «Ah!» disse il tizio. Né ciao, né buongiorno. La fissò come se nel suo locale fosse entrato un ectoplasma. A onor del vero, tutto il paese pareva una sorta di città fantasma, uno dei tanti centri sorti dal nulla durante la Corsa all’Oro che, una volta esaurite le vene minerarie, erano stati abbandonati all’incuria del tempo.
    «Buongiorno» ritentò lei. «Mi chiamo Silvia e sto cercando il signor Williamson… ehm, Duns Williamson.»
    «Be’, direi che lo ha trovato. Solo Duns, per favore! Ma lei da dove spunta fuori?» domandò costui, fissando accigliato la piccola valigia e la sua borsa tecnica.
    «Io?» s’indicò. «Spunto dal pullman che è ripartito poco fa. L’autista mi ha consigliato di rivolgermi a lei.»
    «Cribbio, è da non credere! E cosa è venuta a fare quassù una bella signora come lei?» sbottò quello ad occhi sgranati. Per un attimo, le parve di fissare le vaste orbite di un rapace notturno, un gufo magrissimo e spaventato. Che bella accoglienza, pensò, accigliandosi: erano forse affari suoi?
    «Diciamo che sono qui per ricaricare le batterie» rispose, ermetica. «So che lei può indicarmi qualcuno per noleggiare un’automobile. E anche, se fosse possibile, per trovare una stanza in cui dormire.»
    «Una stanza, in questo periodo dell’anno?!» ribatté il tizio, sempre più sbigottito.
    «E perché no?» lo dileggiò lei, con un sorriso saccente sulle labbra. Per fortuna, Duns se ne accorse.
    «Deve scusarmi, signora, ma è raro che qualcuno salga fin quassù fuori stagione. Anzi, ad essere onesti, direi che di gente non se ne vede affatto… A meno che non sia di quella razza» soggiunse, esitante.
    Questa era bella: che diamine c’entrava la razza? Gli pareva forse un bigfoot, lei? Ma l’uomo non pareva intenzionato a darle una risposta costruttiva. Silvia lo fissò, spazientita, con un sopracciglio alzato; raddrizzò il trolley, piuttosto stanca di attendere che l’oste barra pseudosindaco si decidesse a dirle cosa fare. E poi non la piantava di fissarla.
    «Scusi, che cosa intende per “razza”?» sbottò, senza sapere che stava commettendo un errore madornale.
    «Cribbio, non le pare evidente?» le rispose, asciutto, indicando la borsa tecnica che lei stringeva al fianco. «Direi che quella sembra dell’attrezzatura video.»
    Silvia esitò, molto confusa. Oh, santa pace.
    «Per la verità, signor Williamson, questa è una banale macchina fotografica. Viene molta gente del cinema, qui?»
    L’uomo si asciugò le mani in uno straccio e le rivolse un sorrisetto ebete.
    «Solo Duns, signora, per favore… Cinema? Non direi, qui non siamo certo a Vancouver! Semmai documentaristi, cacciatori di mostri e svitati integrali. Come se avessero qualche speranza» concluse, indulgendo in una risata secca e breve, fastidiosa.
    «Ah, ecco» commentò lei, senza capirci un’acca.
    «Lei non è una di quelli?» domandò ancora lui.
   «Senta, abbia pietà» si spazientì la donna. «Sono straniera, stanca e affamata! Magari sono pure corta di comprendonio, quindi… che significa “uno di quelli”?»
    «Uno di quei pazzi, no? Cacciatori dell’Uomo-Lupo!»
    Ottimo. Adesso era ufficialmente pentita di non aver chiesto informazioni presso l’emporio o all’ufficio postale. Ma l’oste si voltò ad indicare qualcosa che stava appesa al muro, giusto sopra il bancone: una fotografia sbiadita rivestita di plastica trasparente. L’aspetto sgualcito e le tracce di sporcizia facevano intendere che quella sorta di feticcio fosse stato maneggiato da centinaia di persone per un arco di tempo piuttosto lungo. Silvia storse il naso: non si capiva neppure che cosa fosse la macchia sfocata che si stagliava contro un muro di conifere, come un denso sbuffo di fumo colorato.
    «Vede? Quello lì è il mostro! Fu immortalato tre anni or sono, poi più niente. Certo, se lei fosse una brava fotografa, potrebbe riuscire a fare di meglio. In fondo, così carina e in carne, sarebbe un bocconcino tale da indurlo a uscire dalla tana per divorarla!» ghignò, divertito dalla propria battuta. «Ha detto di chiamarsi Silvia, mi pare. Silvia come?» soggiunse, beffardo.
    Fu la volta della donna di restare senza parole: la stava soppesando con lo sguardo e lei arrossì. Forse questo Duns dirigeva pure le pompe funebri locali e già prendeva misure per la bara, formulando epitaffi per la lapide…
    Accidenti, non c’era neanche una persona savia con cui parlare, in quel posto dimenticato da Dio?! Oppure era lei che, senza rendersi conto, aveva varcato qualche invisibile confine dimensionale e stava discorrendo con un ectoplasma sciroccato? D’accordo, andava cercando solitudine e pace interiore ma non avrebbe mai creduto di finire in quel desolato manicomio: prima l’autista della corriera, ora questo tizio untuoso e bizzarro.
    «Soltanto Silvia, per favore» gli fece il verso, sperando di non mettersi a ridere; poi, indicando la foto con un sogghigno, esplose: «Quello sarebbe il che cosa?!…»
    «Ma gliel’ho appena spiegato: è l’Uomo-Lupo! Da queste parti è una vera celebrità; se qualcuno capita qui fuori stagione, in genere implica che sta andando a caccia di quei bestioni. Non so se ha letto il cartello fuori del paese ma abbiamo anche dei Sasquatch. Cribbio, ero convinto che fosse arrivata sin qui per fotografarli!»
    Silvia scosse la testa, esterrefatta che gente grande e grossa come quella credesse ancora alle favole. Chissà per quale misteriosa legge fisica la popolazione mondiale continuava ad aumentare mentre il quoziente intellettivo pro capite tendeva a scemare. Roba da Murphy.
    «Senta, Duns, io sto solo cercando qualcuno che mi noleggi un’automobile» si stizzì, «…e una pensione.»
    «Ah, certo» riprese l’uomo, continuando a fissarla au ralenti. «Vuole un letto, eh? Be’, ci sarebbe l’albergo ma non credo sia aperto fuori stagione… Anche se forse, per lei, il vecchio Scott potrebbe fare un’eccezione.»
    L’espressione di Duns cambiò e non le piacque affatto.
    «Quando dice che deve ricaricare le batterie, intende quelle della sua attrezzatura fotografica, non è vero?» insistette, fissandola con le mani appoggiate sui fianchi.
    Oh, mamma. Silvia roteò gli occhi intorno, esasperata. Okay, era tempo di togliere le tende e andare a cercare altrove. Mentre si chinava per afferrare la valigia, la porta del locale si aprì e un’altra folata di pioviggine e vento penetrò all’interno, il che la innervosì di più.
    «Hank» starnazzò il padrone del pub, aggirando il bancone per raggiungerla. Lei sussultò, distratta dall’arrivo del cliente che il paravento nascondeva ancora.
    «Scusi?» balbettò.
    «Chieda di Hank! Vuole un’auto, no? Lui ne ha, sta all’inizio del paese. Torni indietro per due isolati e poi giri a sinistra, si troverà davanti al garage di Hank.»
    Felice che il tizio untuoso cominciasse a collaborare, memorizzò le nuove informazioni ricevute. L’enorme sagoma di un gigante col giaccone a quadri sbucò da dietro il paravento, costringendola a voltarsi di scatto; sollevò parecchio il capo per arrivare a guardargli la faccia, che era un arruffato cespuglio di pelame rossiccio con un cappellaccio informe piantato in cima. Silvia si sentì minuscola, insignificante; sperò che il nuovo arrivato non la calpestasse per sbaglio. Un solo pugno in testa di quel tipo l’avrebbe ridotta una frittella che manco col cucchiaino…
   «Duns» borbottò costui, trascinando i piedi sul pavimento; aveva le mani in tasca, lunghi capelli da eremita e gli occhi celati da folte sopracciglia. Anche la bocca era nascosta dall’enorme, folto barbone che gli ricadeva sul torace. Malgrado l’aspetto inquietante, Silvia percepì un paio d’iridi vivaci che indugiavano su di lei.
    «Già qui, Dave? Sei passato presto… O hai sentito la novità e sei accorso per controllare di persona, eh?» insinuò l’oste, ammiccando verso la straniera.
    «Mmh, no» brontolò l’altro, restio a fornire ulteriori particolari, ma soggiunse: «Stamani non c’è anima viva e da me fa freddo; darò un’occhiata ai giornali, se li hai.»
    «Sono arrivati con Jim, li trovi sul bancone. Anche se…» rispose Duns, esitante, mentre accarezzava il mento con due dita. «Ti spiace farmi un favore? La signora, qui, è appena arrivata con la corriera e non conosce il paese. Se puoi accompagnarla da Hank… Lo farei io stesso ma tra poco scenderanno a pranzo quelli del primo turno e io sono rimasto solo: Michael non c’è e Pete sostituisce l’aiuto-cuoco in cucina.»
    Mentre il cervello di Silvia arretrava, nel panico, cercando di costringere le gambe a seguirlo, il gigante voltò le spalle, più larghe di quanto un asse da stiro sia lungo, per fissarla senza remore, analizzandola un paio di volte dalla testa ai piedi.
    “Grandioso!” pensò lei, avvampando, “un altro villico con visore a raggi X incorporato.” Mentre quello si dondolava sui piedoni, concludendo la sua radiografia, lei si chinò per afferrare la maniglia della valigia.
    «Non si disturbi, grazie. Ho già capito dove!…» disse in fretta, a disagio, pronta a schizzare verso l’uscita. Il montanaro le piazzò davanti una mano – formato pala per la pizza – e bloccò il suo slancio di fuga.
   «Per me è okay» rispose in tono rude. «Posso accompagnarla io.»
    E ti pareva?… Silvia si trattenne dallo sparare le pupille in orbita. Duns sbatté le mani l’una contro l’altra, molto soddisfatto.
   «Se dopo ha fame, signora Silvia, ritorni qui. Le preparerò qualcosa di speciale e di molto caldo!»
    «Solo Silvia, se non le spiace. E poi non si deve disturbare, davvero!» si schermì. Parlò invano; il gufo strambo le aveva voltato le spalle e s’infilava di nuovo dietro il suo bancone. Meglio lasciar perdere. Rialzò lo sguardo: il montanaro oversize indicava l’uscita con un rapido gesto galante e lei si sentì in obbligo di obbedirgli.
    Suo malgrado, aveva appena rimediato la scorta di un titanico gorilla, sproporzionato come un pupazzo di peluche capitato per sbaglio a scompaginare un diorama in scala H0. Con uno così a guardar le spalle non c’era bisogno di girare armati: era un deterrente naturale contro qualsiasi tipo di crimine. Sicuro, purché non fosse egli stesso uno spostato o un manigoldo, nel qual caso l’autodifesa sarebbe stata pura utopia: un moscerino non picchia una montagna, semmai ci si spiaccica contro.
    «Davvero, non è necessario!» ritentò. Quello scosse il testone e le aprì la porta dinanzi con inattesa gentilezza, indicandole la direzione da prendere.
    «Se sta cercando un mezzo di trasporto, Hank è l’unico che possa aiutarla. Però, creda, avrà bisogno del mio appoggio se va a trattare con lui. È un buon vecchio, a modo suo, ma ha il vizietto dell’avidità. Baderò che non la spenni come una quaglia… Cioè, che non si approfitti del suo portafogli, intendo» precisò, notando l’espressione raggelata della turista. E per un pezzo smise di parlare.
    Quando il silenzio divenne troppo pesante da tollerare, gli chiese timidamente se il suo nome fosse Dave. Non aveva molti appigli per fare conversazione.
    «Cynewulf S. Davis Junior» rispose, lapidario, il gigante. «Però mi chiamano Dave, è assai più comodo.»
    Non le strinse la mano, che restò nascosta in tasca.
    «Oh, be’… concordo. Ki… Kinvulf?» ripeté, non molto sicura di aver compreso bene la pronuncia.
    «Esatto. Nome antico, roba ereditaria.»
    Lei sorrise appena: possibile che ancora imperasse nel mondo l’orrida abitudine di affibbiare ai neonati il nome medievale degli antenati? Poveri figli, tutta l’esistenza spesa a lottare contro un nome idiota e contro gli sfottò dei conoscenti, salvo poi cautelarsi, per l’appunto, alterando ad arte l’orribile appellativo.
    «Immagino che fosse il nome di battesimo di suo nonno» commentò, sperando di camuffare il divertimento.
    «No. Era di mio padre, veramente; ha origini celtiche. Dal nonno ho ripreso il secondo nome, la S sta per Salomon… E di sicuro non siamo stati battezzati, signora, la mia famiglia ha origini ebraiche.»
    «Oh, accidenti, giusto! Mi scusi, non avevo riflettuto sullo junior» si schermì, avvampando per la gaffe. Che diavolo poteva saperne lei del significato di quella esse? Un celtico ebreo, che inconsueta bizzarria.
    «Per cosa si scusa? Non poteva saperlo» osservò il gigante, parlando come a se stesso.
    Silvia annuì: ecco, appunto. E ora, grandioso!, aveva esaurito gli argomenti di conversazione, a parte forse quello prediletto da due perfetti estranei: le osservazioni sul tempo. Per carità! Anche il gigante avrebbe finito con l’osservare quanto fosse bizzarro vederla lassù fuori stagione, per cui evitò di dargliene il pretesto. In ogni caso, il signor Davis non sembrava un campione di loquacità; si limitava a scortarla, tutto lì.
    Mentre l’Italiana ragionava fra sé, Dave ebbe un piccolo soprassalto e si chinò di botto su di lei che, avendo continuato a sorvegliarlo con la coda dell’occhio, ne provò un tale terrore da flettere il busto di lato per scansarsi. L’omone afferrò senza tanti complimenti la sua valigia, anche se Silvia dimostrò coi fatti di non essere molto incline a mollare la presa dalla maniglia. Allora lui emise una specie di gorgoglio prima di sbottare con un deciso: «La dia a me, su.»
    Be’, era carino che si fosse ricordato delle buone maniere, tuttavia lei non aveva molta intenzione di cedergli tutti i suoi averi terreni, anche se solo per pochi metri.
    «Guardi che non pesa molto, ha le rotelle!» tentò. Le grosse dita bollenti del montanaro si avvinghiarono sulle sue, costringendola a mollare la presa. Lei represse un sospiro d’orrore ma gliela diede vinta e il gigante, soddisfatto, prese in carico la valigia; in verità, quasi gli sfuggì via dalla mano per volare di slancio oltre la strada.
    «Viaggia leggera, eh. Strano, per una donna» commentò, rude. Il tono sembrava intimamente divertito ma neppure gli occhi, l’unica parte realmente visibile del suo faccione peloso, sembrarono inclinarsi all’allegria.
    «In realtà, sono qui proprio per disintossicarmi dalla mondanità» rispose lei; più che una risposta, un mugugno. «Speravo che almeno quassù non avrei dovuto fare vita di società. Ci conto ancora, veramente.»
    Gli occhi del montanaro la trafissero, incuriositi e leggermente serrati da un’ilarità segreta.
    «Certo che lei comprende bene i meccanismi della provincia, non è vero?» la derise in tono bonario, soggiungendo: «Se cercava la solitudine, avrebbe dovuto affittare un appartamento a Vancouver o magari a New York.»
    «Oh, certo!» ridacchiò lei, fissando il marciapiedi. «Ha ragione: se laggiù un criminale mi avesse scannata nel letto, probabilmente nessuno se ne sarebbe accorto prima di un mese o due.»
    La sua osservazione li fece ridere entrambi.
    «Appunto» confermò il montanaro, annuendo. «In un posto simile, a parte il lavoro, non c’è molto altro da fare. Temo che lei diventerà l’argomento clou, giù al pub, per un bel pezzo... Mmh, parecchie settimane, direi.»
    Oddio. Settimane?… Le sarebbe toccato un mese di eremitaggio, come minimo! Scosse la testa, scioccata.
    «Coraggio, bella signora, basterà non farci caso; le chiacchiere si esauriranno, soprattutto se lei non si farà scrupolo di rispondere con aria annoiata alle domande.»
    «Già. Come ho detto, però, ero venuta fin qui nella speranza di non dover socializzare affatto» si lagnò lei, suo malgrado.

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